Occorre
salvare i sapori che l’industria alimentare, incessantemente, tenta di
sopprimere e banalizzare propinando gusti standardizzati. La grande
distribuzione è pur vero che facilità la vita di chi è ben inserito nella
società attuale, con i suoi ritmi ed esigenze, contemporaneamente sconvolge ciò
che da millenni fa parte della cultura popolare, l’alimentazione atavica e le
tradizioni gastronomiche. La piccola cucina isolana, e mi riferisco a quella
delle isole minori eoliane, è forse la migliore tra quelle tradizionali, sia
per una questione di attaccamento territoriale dei propri abitanti, sia per la
difficoltà, almeno fino a tempi relativamente lontani, di raggiungere tutte le
piccole isole, quindi per una più ermetica esposizione alle novità e influssi
di fuori “costa”. La difficoltà nel
reperire le materie prime più eterogenee hanno spinto la popolazione locale ad
ottimizzare al massimo le risorse disponibili e i metodi per una più lunga
conservazione per i periodi di isolamento invernale. La fame, bisogno
fisiologico, è superata dal gusto che è bisogno culturale e questo i nostri
isolani lo sapevano perfettamente tanto da creare, con le scarse varietà
disponibili, molteplici ricette e di gran gusto. Il pane non poteva che essere
considerato la fonte di sostentamento principale e acquisiva anche in questo
caso il ruolo di classificatore dello status per come avveniva per gli antichi
romani dell’età imperiale. Le temperature eoliane e la scarsità di acqua
creavano notevoli difficoltà nella coltivazione del frumento (triticum aestivum-durum),
difatti era preferita la coltivazione dell’orzo, molto più resistente a quel
clima sebbene meno digeribile.
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